venerdì 29 novembre 2013

Avvicinare per curare


In un mondo in cui la solitudine sta diventando un motivo costante anche tra i giovanissimi, è sempre più sentita la necessità di umanizzazione e di approccio olistico nella gestione ottimale del rapporto tra medici e pazienti.
È come scoprire l’acqua calda, direbbe qualche persona di buonsenso.
Basti pensare al ruolo del “medico condotto” fino a qualche decennio fa. Allora il rapporto umano e la conoscenza dei propri pazienti e dei loro familiari, costituiva una parte preponderante del bagaglio culturale e terapeutico a disposizione del medico di famiglia, meglio conosciuto come "medico di fiducia", che sapientemente propinava suggerimenti tenendo conto del contesto e delle abitudini di vita, più che degli esami di laboratorio. Persino l’efficacia delle cure ne beneficiava, in modo evidente, pur in concomitanza di trattamenti che non eccellevano di certo per certificazioni scientifiche accreditate.

E non era poco! 
Oggi, nell’era della supertecnologia, il percorso diagnostico terapeutico si fa alla rovescia. Al sintomo, riferito dal paziente, si fa seguire l’esame strumentale più sofisticato da cui, a ritroso, si discende verso il sospetto diagnostico per giungere alla diagnosi “ex adiuvantibus” e alle terapie.
E il rapporto umano?
E l'ascolto?
E l’effetto placebo?
E la compliance terapeutica?
E la fiducia?
E la PERSONA?

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