Come quando, lo scorso febbraio la FDA ha esteso le indicazioni all’impiego di un farmaco abitualmente utilizzato per controllare i livelli troppo elevati di colesterolo nelle persone a rischio di malattie cardiache o già cardiopatiche (si chiama rosuvastatina e fa parte della numerosa famiglia delle statine, i più diffusi farmaci ipocolesterolemizzanti) ai soggetti non malati di cuore e senza ipercolesterolemia.
In realtà questa possibilità era già stata ventilata nel 2008, dopo la pubblicazione su una prestigiosa rivista medica, il New England Journal of Medicine di uno studio il cui acrononimo è JUPITER (Justification for the Use of Statins in Primary Prevention: an Intervention Trial Evaluating Rosuvastatin). Ma nel giro di un paio d'anni si è passati da una proposta basata sui risultati di una ricerca scientifica, alla sua messa in atto nella pratica clinica. Il salto non è banale, non solo dal punto di vista concettuale, ma anche perché il mercato potenziale delle statine negli Stati Uniti, con i suoi 238 milioni di prescrizioni ogni anno, vale già tra i 15 e i 20 miliardi di dollari e vede l’ingresso di altri 6 milioni circa di candidati alla cura con un aumento annuale dei costi sanitari di 9 miliardi di dollari.
Oltre tutto si rischia di trasmettere un messaggio sbagliato sulla salute, presentando l'assunzione di una compressa come alternativa alla prevenzione cardiovascolare basata sulla modifica degli stili di vita (alimentazione, attività fisica, fumo, alcol). Senza verificare che il farmaco controlli il rischio anche in chi continua con le proprie abitudini non corrette.
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